L’azione cattiva, direttamente come tale, in realtà non è mai voluta. Il linguaggio ne ha un fine sentore quando dice che, compiuto l’atto malvagio, “la coscienza si desta”. Perchè si desta la coscienza? Perchè soltanto allora l’azione cattiva affiora nella consapevolezza: sale e diventa cosciente. Nel momento in cui veniva compiuta, nella consapevolezza stava l’altro aspetto, il movente dell’azione cattiva. La cattiva azione non sta nella volontà; anche il significato del rimorso sta nel fatto che la persona che si pente si rende conto di come si sia lasciata intorbidare la coscienza nel momento in cui ha compiuto l’atto malvagio.
Dobbiamo sempre tener chiaramente presente che chi compie una cattiva azione, nel momento in cui la compie ha una coscienza oscurata, abbassata, e che quindi è questione per lui di acquistare una coscienza ben chiara per un altro caso simile. Il significato della punizione sta nel suscitare nell’anima delle forze atte a tener desta la coscienza anche nei casi i quali solitamente ne provocano l’oscuramento.
Fra le dissertazioni che vengono tenute nelle università dai filosofi interessati anche ai problemi giuridici, una delle più frequenti è quella sul “diritto di punire”. Molte teorie si sono architettate sul perchè della punizione. Si troverà l’unica ammissibile solo tenendo conto che il vero compito della punizione sta nel dare alle forze dell’anima una tensione tanto alta da rendere possibile l’estendersi della coscienza oltre i limiti a cui giungeva prima. Questo pure il compito del rimorso. Per la sua stessa forza il rimorso deve riuscire a farci riguardare l’azione in modo che essa sorga a chiara consapevolezza, e che la coscienza ne abbracci l’insieme in modo che, ripetendosi il caso, non possa veni soppressa.
Ecco in che cosa consiste l’essenza del rimorso. Quando si vogliono capire le cose della vita, l’essenziale è imparare a distinguere con precisione tra l’agire pienamente cosciente e l’agire nel quale la coscienza è abbassata, oscurata.
Se invece non si tratta di un’azione buona o cattiva, ma di un’azione che è solo mal riuscita, il cui esito non ha semplicemente corrisposto alle nostre intenzioni, allora noi stessi ne falsiamo l’apprezzamento introducendo nel nostro giudizio il pensiero e il sentimenti che ci fan dire: “Non sarebbero forse le cose andate altrimenti, se avessimo fatto meglio questo o quello, o se noi stessi fossimo stati differenti?” Ecco dove occorre aver presente che quando l’occhio deve vedere un oggetto non può vedere se stesso. Non può tenersi davanti uno specchio, poiché nell’istante in cui l’occhio si tiene davanti lo specchio per vedere se stesso, no può più vedere l’oggetto. Mentre di fronte a un atto da lui compiuto l’uomo arzigogola sul come si sarebbe dovuto condurre diversamente, quell’atto non può agire su di lui con la forza che può promuovere lo sviluppo della sua anima. Infatti nel momento in cui fra la nostra azione e noi frapponiamo l’egoismo, che consiste nel rammaricarsi di non aver fatto le cose in modo diverso, in quel momento facciamo qualcosa che è esattamente lo stesso del porsi davanti agli occhi uno specchio, in modo che l’occhio non possa più vedere l’oggetto.
Possiamo dire che chi non ha ancora trovato l’oggettività rispetto agli eventi trascorsi nei quali ebbe parte, non li può vedere nella loro oggettività, e quindi non può ricavarne ciò che dovrebbe per la propria anima. Nello stesso modo, quello che abbiamo fatto acquista per noi il giusto valore solo se arriviamo a inserirlo nella corrente della necessità, se possiamo considerarlo come qualcosa di necessario. Ma dobbiamo, appunto allora, renderci conto che occorre distinguere fra quello che ci è riuscito bene o male, e quello che può venir chiamato moralmente “buono” o “cattivo”.
Rudolf Steiner
O.O. 166 - Necessità e libertà nella storia e nell'attività umana
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